“Eravamo in USA per la Copa América e Pastore e il Pocho Lavezzi vennero da me. Avevano giocato con Ibrahimovic al PSG ed erano amici.
‘Stai attento perché se ti fai vedere debole e stai zitto, ti mangia’.
Ricordo, allora, una partita di Europa League, era il 2016-17 e fummo campioni. Stavamo giocando in casa contro il Rostov, pareggiavamo.
Mi arrivò il pallone e invece di passarlo a lui, lo passai a Paul (Pogba). Allora Ibra cominciò a urlarmi contro, mi disse di tutto sia in spagnolo che in inglese.
Io lo presi e gli dissi: ‘Che ti succede? Chiudi la bocca… A me non mandi a quel paese’.
Continuammo a insultarci, fino a quando tornammo negli spogliatoi a fine primo tempo. Pensai che mi avrebbe ucciso. E’ alto due metri ed è un karateca. Decisi di affrontarlo per primo, perché mi avrebbe ammazzato. Lui si sedette proprio di fronte a me e io cominciai a slacciarmi gli scarpini. Lui arrivò arrabbiato e io gli dissi all’improvviso: ‘Chiudi la bocca e non rivolgerti più così a me’. Comiciammo a litigare ma nessuno diceva niente.
Intervenne Mourinho e ci zittì.
Da quel momento gli inglesi ebbero terrore di me, pensando che fossi pazzo. Alla fine, il giorno dopo, mentre facevamo colazione, arriva qualcuno che mi prende per il collo, da dietro. Mi giro ed era lui, Zlatan.
Rideva.
‘Sei un figlio di pu***na, non puoi dirmi quelle cose davanti a tutti!’. Ci mettemmo a ridere, siamo sempre stati amici.”
Marcos Rojo si è presentato da solo, raccontanto in TV l’episodio che l’ha visto protagonista con Ibrahimovic ai tempi del Manchester United.
L’argentino non ha paura di niente, figurarsi del campione svedese. In campo si è sempre dovuto difendere, non solo dagli avversari: principalmente dai giudizi. Quando ai Mondiali brasiliani venne convocato da Jorge Sampaoli la stampa e la critica generale ritennero pazzo il Ct argentino. Rojo era arrivato allo United, scalando la vetta Spartak Mosca e Sporting Lisbona, ma nessuno credeva lo meritasse per davvero.
Col peso del pregiudizio sulle spalle e da difensore, segnò di rabona contro la Bosnia, di ginocchio contro la Nigeria e fece girare la testa ad Arjen Robben quando sfidò i Paesi Bassi.
Fu Marquitos il migliore, probabilmente, di quella gestione tecnica. Ma nessuno lo ammise mai.
D’altronde Rojo è sempre stato l’uomo di Alejandro Sabella e da maestro a carnefice il cammino è stato breve anche per lo storico allenatore. Nel 2010 sedeva proprio lui in panchina quando, contro l’Arsenal, l’Estudiantes vinse con un gol la sfida che lo consacrò campione d’Apertura.
Fu l’ultima volta in cui Rojo indossò la maglia del Pincha. Aveva 20 anni e andò in Russia, senza mai aver debuttato nello stadio del León.
Perché l’1 y 55 venne barricato nel 2005. Sul suo terreno di gioco l’Estudiantes aveva praticamente vinto ogni cosa. L’Estadio Jorge Luis Hirschi era fortezza dei padroni di casa e terrore di ogni avversario, proprietà del club che chiuse l’impianto in occasione clásico platense con una rete di José Luis Calderón.
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Quel giorno in campo c’era anche Marcos Rojo, che sognava di fare con i Pincharrata almeno la metà di quanto fatto in carriera dal suo idolo, il Ratón Ayala.
Non ci riuscì mai: era una raccattapalle nell’occasione, un quindicenne sognatore delle Giovanili dell’Estudiantes, che festeggiava appena i suoi cento anni di storia e le mille gare professionistiche.
“In quei momenti pensavo tra me e me, e dicevo ‘che voglia di giocare qui, un giorno prima o poi mi toccherà’. Poi, sono andato in Europa e non ci sono mai riuscito. Per me, questo non è un ritorno. Si tratta di un sogno. Giocherò nello stadio dove mai ho potuto, ed è anche bellissimo”.
Già, perché quest’anno l’1 y 55 è tornato ed è il primo stadio ergonomico al mondo e il più tecnologicamente avanzato. A casa è tornato pure Javier Mascherano e Rojo vuole che al suo Rosario Central faccia capolino di nuovo anche Ángel Di María.
El Fideo ha pensato a uno scherzo quando Rojo gli ha annunciato che avrebbe vestito di nuovo la maglia dell’Estudiantes. Perché tornare a casa proprio adesso? Quando avrebbe potuto andare a Monaco, come i suoi agenti gli avevano proposto.
“Ti rendi conto? Vivere a Monaco”, Marquitos non li ha nemmeno ascoltati. Ha solo chiesto loro di non recapitare nessun’offerta allo United, per paura che l’accettassero e non gli permettessero di abbassarsi l’ingaggio, abbassare il valore del cartellino e tornare finalmente a casa.
Quando il fisico è ossessionato dagli infortuni, quando le sfide si fanno meno serene, quando gli obiettivi cominciano a mutare, si sente nostalgia di casa. Marcos non voleva essere altrove, anche perché a La Plata c’è lo stadio più bello al mondo, che ha riempito gli occhi di un bambino delle giovanili con un ultimo sogno rimasto in sospeso.
di Sabrina Uccello
calcioargentino.it