È apparso nelle colonne della Gazzetta dello Sport nei giorni scorsi l’intervista esclusiva a Mateo Retegui realizzata dal corrispondente argentino Paolo Ianieri. Riproponiamo in versione integrale l’articolo sul centravanti del Tigre della Nazionale italiana, con un presente in Argentina e un futuro chiamato Vecchio Continente.
La prima cosa che salta all’occhio nell’incontrare Mateo Retegui è la puntualità svizzera. «Ci vediamo alle 17» ci aveva scritto la sorella Micaela, argento olimpico nell’hockey prato a Tokyo, che gli dà una mano nelle pubbliche relazioni. E alle 17 spaccate ecco Mateo aprire la porta della villetta all’interno del villaggio di Santa Barbara, periferia nord a una trentina di chilometri dal centro di Buenos Aires, vicinissimo a San Fernando, dove è nato: area dominata dal verde, piccoli laghetti attorno a cui sorgono le case, l’unico suono è il silenzio.
La seconda sono gli occhi, puliti e di un verdechiarissimo che a tratti sembrano quasi trasparenti. La terza, l’educazione e l’umiltà. «Non amo troppo le interviste, sono una persona tranquilla e riservata che non vuole apparire. Parlo dopo le partite, devo, per il resto preferisco restare defilato».
Parla, e tanto, però, con i gol. Capocannoniere 2022 della Primera División argentina con 19 reti, quest’anno è ancora lui a guidare tra i marcatori con 7 gol. L’ultimo, domenica scorsa al 99’, ha dato al suo Tigre una vittoria per 2-1 sul Lanús. È stato il terzo gol in altrettante partite per Retegui. Gli altri due? Speciali, perché arrivati nel suo debutto con l’Italia di Roberto Mancini, quello inutile nella sconfitta per 2-1 con l’Inghilterra, e il primo nel 2-0 con Malta. San Mateo, lo chiamano i tifosi del Tigre, e chissà che non lo possa diventare anche per quelli italiani. Intanto, seduto sul divano della piccola veranda che dà sul giardino e sorseggiando l’immancabile mate, Mateo comincia a raccontare. E non si ferma più.
Di Retegui calciatore si sa ormai quasi tutto. Ma chi è Mateo?
«Un ragazzo tranquillo, dal profilo molto basso, che ama stare a casa, allenarsi, passare tempo con la famiglia, i suoi cinque cani e gli amici, guardare film e serie tv. Se dovessi usare una parola, direi semplice».
Lei è nato a San Fernando, gioca nel Tigre. Tutta la sua esistenza in pochi chilometri quadrati.
«Sì. Papà vive a pochi chilometri da qui, mamma a cinque isolati dallo stadio del Tigre, gli amici
sono quelli di sempre. Qui ci sono tutte le mie radici. Per il momento, perché il futuro potrebbe essere in Europa».
Lei viene da una famiglia di campioni nell’hockey prato: papà ha vinto tre medaglie alle Olimpiadi, sua sorella una, anche sua madre ha giocato ad alto livello.
«Anche i miei nonni. Prima di scegliere definitivamente il calcio, pure io giocavo a hockey, in realtà amo qualsiasi sport, allenarmi, andare in palestra. Avrei potuto essere hockeista, per due anni ho smesso con il calcio, poi apparve Diego Mazzilli, uno scout del Boca Juniors, che un giorno mi vide giocare a calcio in spiaggia e mi chiese se volessi fare un provino».
L’incontro fortuito che cambia la vita. «Sì, mi aveva visto da ragazzino giocare nelle giovanili del River Plate e si ricordava di me: dopo un paio di settimane il Boca mi prese e io decisi per sempre che la mia strada era il calcio».
Com’è il rapporto con suo padre Carlos?
«Molto forte. Oltre che un grandissimo giocatore,è stato allenatore dei Leones e delle Leonas (le nazionali argentine di hockey; n.d.r.). Per me è stato il miglior allenatore del mondo, oggi è il segretario dello sport della città di Buenos Aires. Oltre a essere colui che segue i miei interessi. Ma io ho un rapporto strettissimo con tutta la mia famiglia. Con Micaela poi è speciale, ha due anni più di me, è mia sorella ma soprattutto la mia migliore amica, con lei condivido tutto».
L’hockey le ha insegnato l’intensità, lei non molla mai.
«È uno sport estremamente dinamico, ma il calcio di oggi va nella stessa direzione. Devi correre tutto il tempo, sennò ti complichi la vita. Una delle mie caratteristiche è sempre stata di correre tanto, dare una mano in ogni zona del campo, in attacco come in difesa. Il calcio è uno sport di squadra e io credo molto in questo concetto. Oggi mi sento un giocatore molto più completo».
Lei è forte di testa, destro, sinistro. Qual è il suo colpo migliore?
«A me non piace descrivermi, preferisco che siano gli altri a farlo. Sono molto autocritico con me stesso e lavoro forte per migliorarmi, perché a livello fisico come mentale, puoi sempre provare a fare qualcosa di più. Il mio mantra è che le mie virtù siano sempre migliori e che i miei difetti divengano virtù. L’obiettivo in campo è che ogni cosa che faccio sia la più naturale possibile».
Cos’è la pressione, per lei?
«Qualcosa che amo, che cerco. Non mi fa paura, anzi. Più pressione ho addosso e meglio reagisco».
Lei è stato il capocannoniere del campionato 2022: perché il Boca, che è comproprietario del suo cartellino, non l’ha voluta?
«È la prima volta che lo racconto: il contratto con il Tigre è di due anni, ma il Boca lo scorso novembre aveva l’opzione per richiedermi. Però non si è fatto sentire nessuno. Alla ripresa degli allenamenti a fine dicembre ho parlato con Diego Martinez (l’allenatore; n.d.r.), dicendogli che il Tigre per me è più di un club e che, a meno che la società per motivi economici non avesse accettato un’offerta dall’estero, sarei voluto rimanere. Poi a gennaio, poco prima dell’inizio del campionato, Hugo Ibarra (fino a una settimana fa allenatore del Boca; n.d.r.) mi ha detto che era interessato a me già per questa stagione, ma io avevo già dato la parola al Tigre. Per rispetto verso il presidente, tutta la società, Martinez e i miei compagni, a quel punto avrei accettato solo di andare all’estero».
E con la Nazionale italiana come è cominciato tutto?
«Un giorno a inizio anno stavo tornando da un’allenamento e papà mi chiama per dirmi che aveva una notizia molto importante. Ma non mi sarei mai immaginato una cosa così, nemmeno nel più bello dei sogni avrei potuto pensare di giocare per l’Italia, a Napoli, nello stadio che porta il nome di Diego Armando Maradona. Non appena papà mi ha detto che Roberto (Mancini; n.d.r.) mi voleva, il mio sì è arrivato velocissimo, non c’era molto da pensarci».
Ha parlato con Mancini prima di venire in Italia?
«No, lo ha fatto solo mio papà. Con Roberto abbiamo poi parlato tanto a Coverciano, soprattutto di tattica e di come lui intende giocare. Devo ringraziare lui, tutto lo staff tecnico e i miei compagni per come mi hanno accolto e fatto sentire. Non mi sarei mai immaginato di vivere tutto questo. Ho provato a sfruttare al massimo ogni giorno per conoscere l’ambiente e iniziare a capire meglio il calcio europeo, che è molto diverso da quello argentino: è più veloce, dinamico, intenso. Si adatta a me, mi piace molto. Adesso l’obiettivo è di prepararmi ancora meglio a livello fisico e mentale se l’Italia mi dovesse richiamare».
Che idea si è fatto dell’Italia?
«Ottima. È una squadra dura, molto fisica, mi piace molto. So che adesso tanti hanno molte aspettative su di me, ma io ne ho altrettante di giocare per quella squadra».
Come è stato giocare al Maradona da argentino?
«Debuttare in quello stadio con la maglia dell’Italia è stato stupendo, è difficile da spiegare, per tutte le sensazioni che provavo quando sono entrato in campo, sentire tutta quella gente. Bellissimo. Avrei solo voluto vincere, sarebbe stato il debutto perfetto».
Meglio Maradona o Messi?
Sorride. «Tutti e due. Io non ho vissuto la storia di Diego come giocatore. L’ho incontrato giocando il
Clasico con l’Estudiantes quando lui era l’allenatore del Gimnasia, vincemmo 1-0 con il mio gol. Ne ho fatti tanti, ma per me quello resta il gol più importante della mia carriera. Ho fatto una bella
foto con Diego quel giorno, anche se lui non era propriamente felice. Però non posso scegliere tra
lui e Leo, sono i due più grandi della storia».
Ha un giocatore a cui si ispira?
«Tanti che guardo e che ammiro. Haaland del Manchester City è uno di quelli, un 9 letale che mi
piace tantissimo. Poi Lewandowski, Ibrahimovic, sono tutti molto completi. E sono dei leader».
Lei è un leader?
«Uff, domanda difficile questa: nel Tigre ci sono giocatori di grande carisma e storia, penso a Seba
Prediger, Gonzalo Marinelli o il “Pato” Galmarini, che si è ritirato da poco: loro sono un esempio da
seguire, fondamentali. Mi piacerebbe essere considerato uguale, ma non sono io a doverlo dire».
Intanto nel tempo libero deve cominciare a studiare italiano.
«Lo sto già facendo. In realtà lo capisco perfettamente e lo parlo già. Ma siccome sono un perfezionista, mi vergogno a farmi sentire fino a che non lo parlerò davvero bene. Lo stesso per l’inglese».
La storia della chiamata di Mancini incomincia in Sicilia, a Canicattì, da dove veniva il suo bi-
snonno materno, Angelo Dimarco.
«La conosco quella storia, mia nonna me l’ha raccontata tante volte».
Lo sa che il sindaco vuole darle la cittadinanza onoraria?
«No, davvero? Lo scopro da lei adesso. Bellissimo, ne sarei orgoglioso. Quando torno in Italia voglio andare a visitare quelle zone».
Come è stata la reazione qui in Argentina, da parte dei suoi compagni, dei tifosi, della stampa, alla chiamata dell’Italia?
«Sono stati tutti molto felici. Beh, ci sarà anche chi non l’ha presa bene, ma in generale sono contenti per questa opportunità. Per me è un orgoglio, per la mia famiglia anche».
Poi in estate arriverà la chiamata dall’Europa.
«Sì, il presidente Melaraña ha detto che a luglio potrebbe essere probabile che io venga ceduto. A me piace molto l’idea, è un sogno per tutti quelli che giocano a calcio, i più grandi sono in Europa».
Per quale squadra italiana tifa?
Sorride. «Ah, tante. Ci sono grandissimi club, mi piacciono tutti».
Non ce n’è uno a cui guarda con più attenzione? Si parla dell’Inter molto interessata a prenderla.
Il sorriso si allarga ancora di più. «Non c’è niente di concreto e non so cosa stia succedendo, è papà che si sta occupando del futuro. Io con la testa sono al 100% sul Tigre. Giovedì (la notte scorsa; n.d.r.) esordiamo nella Copa Sudamericana (la nostra Europa League; n.d.r.) in casa contro i brasiliani del San Paolo, poi domenica saremo in trasferta contro il Godoy Cruz. La mia attenzione è tutta qui».
Se in Argentina il derby è tra Boca e River, in Italia c’è quello tra Inter e Milan, che stanno pensando a lei.
«Non so se sia vero. Ripeto, se ne sta occupando mio papà con i dirigenti del Tigre».
E poi c’è interesse anche dalla Premier League, dalla Liga… In che campionato le piacerebbe giocare?
«Dove sia meglio per me. Mi piacerebbe molto venire in Italia, ma è ancora molto presto. Però sarebbe bellissimo diventare un protagonista del campionato, uno che segna tanti gol. Come mi piacerebbe segnarne tanti anche per l’Italia, una delle nazionali più importanti della storia».
Magari già il 15 giugno, semifinale di Nations League contro la Spagna.
«Io so solo che muoio dalla voglia di esserci, ma è Roberto che deve deciderlo»
Paolo Ianieri, 7 aprile 2023
Gazzetta dello Sport