Quante cose si possono fare in sette secondi? Tante, molte. Come scendere dall’Olimpo, atterrare al Wanda Metropolitano e rompere l’inerzia di uno 0-0 tra i comuni mortali di Barcelona e Atlético Madrid. Sette secondi e sette tocchi sono bastati a Lionel Messi per siglare un altro capolavoro dei suoi, con firma d’autore e accompagnamento musicale di Luis Suárez. Una rete che vale oro, perché a Parigi aspettavano soltanto lui. Anche stavolta.
Nell’epoca in cui anche le divinità non europee possono ambire al Ballon d’Or, assegnato da France Football, nessuno l’ha accarezzato e portato a casa più volte di lui. Cristiano Ronaldo, l’eterno sfidante, è stato il principale competitor de La Pulga in tutti questi anni di militanza in Liga. Cinque ne ha vinti il portoghese, uno in più l’argentino.
Sempre un passo avanti lui, che al théâtre du Châtelet è ormai di casa. L’assegnazione dello scorso anno a Luka Modrić è quasi sembrata un riconoscimento doveroso alla carriera e la necessità di dare un colpo al cerchio della classifica storica. Ma Messi è sempre là: il suo genio si è svegliato un’ora prima del talento di qualsiasi altro calciatore.
¿De qué planeta viniste? Chiese un po’ a Dio e un po’ a se stesso lo scrittore e giornalista Víctor Hugo Morales, nel giorno in cui Diego Armando Maradona si strinse l’Argentina intorno alle scarpette e chiuse con il gol del secolo la pratica Inghilterra.
Messico 1986.
Quella rete concluse in favore degli Albicelestes una battaglia più politica che sportiva: delle Malvinas gli inglesi sottomisero gli abitanti originari della Patagonia, ma il loro dominio si fermò lì. In campo, infatti, esisteva una sola legge, e la dettava Maradona. Quel gol l’avranno tatuato in migliaia, milioni.
Solo Messi no, eppure dovrà farci i conti tutta la vita.
Non ha vinto i Mondiali, non ha trascinato l’Argentina, non ha segnato il gol del secolo.
Non è successo quasi niente di tutto questo, è vero. Ma qualcun altro ha vinto 36 titoli con un club e 82 riconoscimenti individuali? Senza mai fare nient’altro per “vendere” la propria immagine se non giocare come sa: tenendo il pallone incollato al piede, seguendo le linee che disegna la sfera e mai le caviglie degli avversari? Rincorrendo i due archi della porta e mai i guantoni dell’estremo difensore avversario? Avendo come unico idolo El Payaso Aimar, che in campo distribuiva eleganza in dosi di cuoio?
La classe, d’altronde, è lo standard che Messi negli anni ha portato oltre i confini della comprensione avversaria, stabilendo la legge universale secondo la quale il “Barcellona che comincia le partite 1-0 in favore”.
Che avrebbe fatto, obietta qualcuno, La Pulga se non avesse avuto il privilegio di dividere il campo con Xavi e Iniesta? E loro invece? Cosa avrebbero fatto, se nessuno fosse stato capace di convertire in punteggi la loro poesia?
Con 36 reti in 34 partite e 10 gol in 12 sfide di Champions League, Messi accompagnato dai due figli e dalla moglie Antonella tocca per la sesta volta un pallone che diventa d’oro più che mai, quando si tratta di lui.
Nessuno al mondo può vantare il suo stesso numero di Ballon d’Or.
Eppure non basterà, perché non sarà mai empatico come D10S, pieno di sé come Cristiano Ronaldo né più roccioso di van Dijk, il favorito per quest’anno.
Resterà soltanto Leo, a cui non piace troppo parlare in pubblico, in campo va a testa bassa senza proclami, finché non rotola sul verde il pallone. Resterà soltanto Leo, intorno al quale è stato costruito un fenomeno marketing che non è mai stato bravo a gestire.
Divorato dalla macchina del cerca idolo per forza, ha dovuto vestire i panni scomodi del modello da imitare. Non troppo bello né tanto alla moda. Se ne diranno sempre tante e la maglia albiceleste sarà ogni volta il pendolo che oscillerà in favore dei detrattori: “Non è stato il faro dello spogliatoio”, “Decide lui chi convocare”, “Si fa solo alla maniera sua eppure non vince”, “Maradona ha vinto da solo”, “Ha lasciato la Nazionale come nessun capitano farebbe”. Ma viveteci voi da miglior giocatore al mondo col fardello di doverlo ricordare, perché a nessuno piace ammetterlo.
Bei problemi, direte. Ed è vero, ma Leo resta pur sempre un ragazzino che voleva solo un pallone per divertirsi. Non è certo colpa sua se sa farlo, oggi, meglio di chiunque altro al mondo.
Di Sabrina Uccello
calcioargentino.it